"BABYLON" di Damien Chazelle

recensione di Andrea Brio


Hollywood, 1926-27: Manuel, giovane messicano tuttofare al servizio delle major sogna di raggiungere prestigio nell’industria del cinema. Nellie, ragazza intraprendente decisa a diventare una star dimostra di potercela fare. Jack, attore con oltre ottanta film alle spalle si inebria di alcool e di droga per fuggire la propria apatia. L’avvento del sonoro e altri fattori imprecisati sconvolgono l’industria e l’ambiente a esso connesso. 

1932: Hollywood è ormai cambiata. Jack, non riuscendo più a convivere con il proprio dolore si uccide. Nellie, ormai allo sbando contrae fortissimi debiti di gioco con un gangster locale. Manuel, che nel frattempo è diventato produttore esecutivo, tenta di aiutarla recapitando personalmente denaro falso al criminale. Questi lo scopre costringendo Manuel a fuggire in Messico e cambiare vita.

1952: Nellie è morta da tempo. Manuel torna a Los Angeles con la propria famiglia. Passa davanti agli studios dove ha lavorato ed entra in un cinema che proietta Singing in the rain. Osservando lo schermo si commuove vedendo riflessa la copia del proprio passato (il film proiettato è ambientato a Hollywood negli anni ’20). 

 

Questa è la storia di ‘Babylon’, l’ultimo film di Damien Chazelle. Si dirà: ottimo! Un film che parla di Cinema. Un film sul potere del cinema. Sbagliato. Certo, non è né carino né utile frenare gli entusiasmi con un semplice diniego. E del resto, come può un film sul cinema, ambientato nel mondo del cinema, non avere il cinema stesso come tema principale? Risulterebbe difficile da credere. E tuttavia nel film di Chazelle il cinema, quello vero, riveste un’importanza assai marginale. A questo punto si potrebbe pensare che ‘Babylon’ sia semplicemente un film a sfondo storico, del resto è ambientato a Los Angeles negli anni ’20. Ancora sbagliato. ‘Babylon’ non è neanche un film in costume. Ogni film a sfondo storico che si rispetti dovrebbe, infatti, affrontare vicende reali, o verosimilmente avvenute nel passato. Certo, sono comunissimi i film storici con personaggi fittizi ma in molti di questi film il contesto storico che agisce sullo sfondo della vicenda di fantasia è sempre veritiero. Nei rari casi in cui un film presenta un dato contesto storico con vicende e personaggi di fantasia che agiscono sugli sviluppi della storia reale cambiandone gli esiti si parla di ucronia. ‘Babylon’ non rientra in nessuna di queste categorie. Dunque, non è nemmeno un film in costume. Ma come può un film ambientato a Hollywood negli anni ’20 non avere niente a che fare con il cinema e/o con la storia? E se non ha niente a che fare con tutto questo di cosa tratta? Innanzitutto è necessario stabilire cosa ‘Babylon’ vuole (pretende?) essere: un discorso sulla caducità dell’esistenza umana, sull’impossibilità umana di adattarsi agli sviluppi evolutivi (o involutivi) della storia e di come invece il cinema pur accordandosi con tali sviluppi riesce a mantenere magicamente viva la propria essenza originaria. Il film di Chazelle dovrebbe essere questo. Tuttavia, l’unica cosa che traspare dalla visione di ‘Babylon’ è l’arroganza del suo autore. Come può Chazelle proporre un discorso simile se non conosce a fondo l’argomento trattato!? Ciononostante ‘Babylon’ è stato realizzato. Il risultato è un film confuso, lacunoso e sciatto.

‘Babylon’ è soprattutto mal scritto. La vicenda raccontata nel film, in teoria, dovrebbe mostrare gli effetti che il Codice Hays produsse nello studio system e conseguentemente nella vita dei personaggi fittizi protagonisti di questa problematica epopea. La prima parte del film è, in effetti, una celebrazione della Hollywood esorbitante e piacevolmente scandalosa dei “ruggenti” anni ’20, prima dell’avvento dei Codici. La seconda parte invece si tinge di colori più funesti raccontando la Hollywood moralistica in pieno production code. Nella storia, quella vera, il Codice di produzione venne istituito in parte per restituire un’immagine di Hollywood accettabile agli occhi dell’opinione pubblica scandalizzata dall’audacia tematica dei film e dalle rivelazioni sulla vita privata di registi e attori, e in parte per evitare una legge di censura federale. Ma nel film di Chazelle NON c’è alcun riferimento ai Codici. Perché un’informazione tanto importante non viene data? “I tempi sono cambiati” vocifera di tanto in tanto qualcuno, ma le cause principali che portarono a questi cambiamenti Chazelle non le menziona. Questo errore di esposizione a dir poco grossolano innesca una reazione a catena che compromette la credibilità degli eventi e favorisce una forte incoerenza ambientale. Ricevimenti compìti sostituiscono i party selvaggi senza la benché minima spiegazione e il clima di piacevole “sovversione” (anche sessuale) si trasforma senza apparente motivo in una contenuta e casta ipocrisia perbenista. Solo i numerosi problemi tecnici che il passaggio dal muto al sonoro comportò sembrano ben illustrati nel film. In una sequenza una troupe tenta, tra mille difficoltà, di portare a termine una semplice ripresa resa complessa dall’inefficacia dei marchingegni utilizzati per registrare il suono nei primi anni. Questa sequenza è innegabilmente divertente, peccato sia spudoratamente copiata dal musical Singing in the Rain, film citato da Chazelle anche nel finale. 

Nella sequenza iniziale un elefante destinato a diventare l’attrazione principale di una festa orgiastica improvvisamente defeca sul volto di chi lo trasporta innescando il tono portante della prima parte del film che oscilla tra lo scanzonato e il grottesco. La sequenza della festa prosegue, infatti, sulla stessa linea: in una stanza una donna muore per arresto cardiaco dopo aver urinato sullo stomaco di un signore obeso, nello sfarzoso soggiorno corpi nudi si accoppiano selvaggiamente mentre un gruppo di musicisti suona su un palco. Un’atmosfera di elettrica irriverenza è presente anche durante il lavoro sui set raccontato nelle sequenze successive. Tuttavia, proprio la natura eccessiva delle situazioni mostrate nella prima metà del film fanno risaltare incongruenze e difetti. Quando Hollywood diventa “bigotta”, il registro del film muta, si fa più drammatico. Gli istinti repressi di chi prima si divertiva pubblicamente trovano una loro malsana applicazione in un peccaminoso bunker gestito da un gangster locale. Ma perché i festini della prima parte dovrebbero apparire più divertenti di quello che succede nel bunker? Forse a causa della diversa illuminazione? La festa orgiastica è posta, in effetti sotto una luce calda, più invitante, mentre la sequenza ambientata nel bunker è resa attraverso un mortuario chiaroscuro. Si dirà: solo per questo? Risposta esatta. Nel concreto, ciò che succede nel bunker non è quasi per nulla diverso da quello che accadeva durante i party selvaggi. L’unica differenza consiste nella rappresentazione di un energumeno che si mangia un topo. Davvero ridicolo…

Anche i tre personaggi principali sono mal caratterizzati: Manuel, in particolare, risulta difficilmente inquadrabile. Il suo comportamento manca ripetutamente di coerenza: all’inizio occulta un cadavere come se niente fosse ma poi sembra turbato nel vedere il topo masticato. Si innamora della coprotagonista ma poi inveisce contro di lei quando questa gli chiede aiuto. Verso la metà del film, inoltre, si “trasforma” improvvisamente da tuttofare al servizio delle major a produttore realizzato senza neanche un accenno su come ci sia riuscito. Quasi nessuna informazione ci viene data sul passato di Nellie (interpretata da Margot Robbie) e di conseguenza la sua iniziale fortuna come attrice ci è del tutto indifferente. Jack (interpretato da un catatonico Brad Pitt) dovrebbe far ridere perché parla italiano e commuovere in quanto sofferente di apatia nei confronti di tutto ciò che lo circonda (ma poi perché?). Questi sono i personaggi principali. Che dire dei secondari. Sarebbe meglio lasciar perdere… Comunque… Fay, scrittrice cinese di didascalie per film muti e occasionalmente, chissà perché, cantante di cabaret costituisce una presenza così inutile che se la eliminassimo dal film nessuno se ne accorgerebbe. Per quanto riguarda Sidney, il trombettista nero, è necessario spendere qualche riga. Con questo personaggio Chazelle vorrebbe intraprendere persino un mezzo discorso etnico-sociale che per fortuna non ha voluto, o forse potuto, approfondire. All’inizio Sidney sembra felicemente ambientato a Hollywood: suona a ritmo scatenato ai festini organizzati nei piani alti e conversa amichevolmente con i colleghi. Poi, come ormai sappiamo, tutto cambia. A quel punto si trova costretto a esibirsi in una stamberga e la musica malinconica che suona ci fa sospettare che non ne sia particolarmente felice. Sidney è l’unico nero presente in più scene, in un film che si serve soprattutto di personaggi bianchi. Dunque, implicitamente, non può non rappresentare anche la sua etnia. Chazelle vorrebbe, quindi, davvero convincerci che l’involuzione perbenista di Hollywood ha incrementato una completa emarginazione non solo di soggetti licenziosi ma anche della gente di colore. Ma la storia insegna che gli afroamericani hanno dovuto sudare per ottenere negli Stati Uniti i propri sacrosanti diritti, e che li hanno raggiunti, purtroppo, soltanto a partire dai tardi anni Sessanta del Novecento. Durante i “Ruggenti” anni ’20, della politica liberista dei governi repubblicani beneficiò un’ampia fetta della popolazione, ma non di certo la comunità nera, oppressa com’era da un forte razzismo. Come può Sidney DIVENTARE un emarginato, quando, di fatto, lo è sempre stato?

Il film è, dunque, non solo mal realizzato ma anche storicamente falso. Noi non crediamo che questo sia sempre un errore. Se il desiderio dell’autore è quello di realizzare un film ambientato nel passato ma con l’intenzione di intraprendere un discorso metaforico sulla propria contemporaneità una parziale infedeltà storica è ammissibile. La storia del cinema è piena di grandiosi esempi in tal senso: Intolerance di David Wark Griffith (citato per altro da Chazelle), Allonsanfan dei fratelli Taviani, Barry Lyndon di Stanley Kubrick solo per citarne alcuni. Se però l’autore VUOLE intraprendere un discorso storico, per di più così pretenzioso, e poi dimostra di non conoscere la storia rischia non solo di sbagliare del tutto il film, ma di risultare anche arrogante. E Chazelle si spinge anche oltre… Con ‘Babylon’ non vuole semplicemente impartire una lezione di storia. Pretende di esporre un discorso ideologico sul cinema. Nel finale ambientato nel 1952, Manuel torna a Hollywood, entra in una sala e guarda Singing in the Rain, film realizzato proprio in quel periodo e ambientato a Hollywood negli anni ’20, quando lui ci lavorava. Commosso osserva lo schermo e il pubblico, constatando che nonostante il successo personale sia solo di passaggio, come la storia che si evolve, il cinema, che pure muta con essa, resta eterno. A questo punto si dirà: ok, il film è mal scritto e la storia del cinema non è rispettata, però forse le intenzioni di Chazelle erano buone. Forse, in fondo, non c’è tutta questa arroganza. Ma prima che il film si concluda sul primo piano del protagonista, servendosi un inserto extradiegetico Chazelle propone in rapida successione un guazzabuglio di immagini tratte da film molto celebrati del passato e del nostro presente, con la pretesa, sembrerebbe, di racchiudere tutta la complessità e profondità del cinema in pochi fuggevoli istanti. Non contento sterza su colori e colpi di luce a ritmo forsennato, convulso. Alla fine il film finisce e Chazelle riesce finalmente, per chi non l’avesse ancora capito, a palesare le sue vere intenzioni: dimostrare quanto (non) sia abile a fare film. Punto. Ma al di là di tutto c’è un’altra cosa che Chazelle non sa: sfruttare il cinema per celebrare se stessi non è l’atteggiamento di chi il cinema lo ama. Se non lo ami, il cinema non lo puoi capire e se non lo capisci non lo puoi neanche fare.