di Andrea Brio
La zona d’interesse (The zone of interest, 2023, Regno Unito, Polonia) è ambientato nei pressi del complesso concentrazionario di Auschwitz nel 1943 e racconta la storia del comandante nazista Rudolf Hoss, che insieme alla moglie Hedwig e ai loro cinque figli trascorre le proprie giornate all’interno della propria tenuta, di circa 25 miglia attorno al campo di sterminio, deliberatamente ciechi di fronte all’orrore che si sta consumando al di là del muro che li divide. Il film, tratto dall’omonimo romanzo non-fiction di Martin Amis, è scritto e diretto da Jonathan Glazer.
La premessa fondamentale sulla quale in teoria si basa il film è la seguente: l’indifferenza rende disumani. L’idea originaria del film di Glazer è questa in quanto riassume tutto ciò che l’autore dovrebbe voler offrire; psicologia dei personaggi, conflitto, sviluppo e conclusione. A questi elementi va aggiunta la posizione dell’istanza narrante, in altre parole lo sguardo critico dell’autore. Insomma, in un’ora e quarantacinque Glazer avrebbe dovuto, data la premessa, convincere lo spettatore che l’indifferenza davvero rende disumani. E poteva anche riuscirci considerando il materiale che aveva tra le mani – l’olocausto – nonché la (casuale?) distribuzione del film nel mezzo di due conflitti armati che attualmente stanno interessando il mondo intero e che potrebbero rendere anche noi, cittadini privilegiati, potenzialmente indifferenti agli abomini che si consumano al di là della “barriera invisibile”. Tuttavia, a film finito, saranno in tanti gli spettatori che usciranno dalla sala più annoiati che spaventati, più inappagati che colpiti, più confusi che convinti. Il problema è, come spesso accade, di natura narrativa. In questo caso risiede addirittura nelle fondamenta tematiche del film. Glazer si è servito in effetti di due premesse distinte; a circa metà proiezione l’indifferenza rende disumani cede il posto a un altro tema: il nazismo ha lasciato un segno indelebile. Ma un film con più di una premessa non può che rivelarsi, salvo rare eccezioni, decisamente confuso e sbilanciato. La zona d’interesse è un film di questo tipo.
Nonostante il primo tema sia a tratti ben formulato, viene bruscamente accantonato proprio per lasciare spazio alla seconda idea, che però non è altrettanto intensa da poter essere considerata una vera e propria premessa; in effetti il nazismo ha lasciato un segno indelebile è un tema che per quanto valido non contiene nessun riferimento aggettivale connesso ai personaggi, nessun conflitto e conseguentemente non ha né uno sviluppo né una conclusione. A dir la verità non è nemmeno un tema con cui l’autore può farci intendere chiaramente la sua posizione critica; che il nazismo abbia lasciato un segno indelebile è un dato di fatto, non è opinabile. Una premessa del genere è informe, poco nitida ed equivale a non averla affatto. Ecco perché dopo circa un’ora il film crolla irrimediabilmente. Questo passaggio tematico è regolato da un evento apparentemente importante, che avrebbe potuto comunque rendere l’ultima mezz’ora di film quanto meno godibile; Rudolf viene promosso, pertanto si trova obbligato, suo malgrado, a lasciare la famiglia e la propria abitazione. A questo punto uno sceneggiatore valido avrebbe enfatizzato il conflitto interiore del protagonista, diviso tra il dovere imposto dal regime e gli affetti familiari. Tuttavia Glazer preferisce focalizzarsi sui colloqui di Rudolf, incaricato di dirigere un’operazione che trasporterà 700.000 ebrei ungheresi ad Auschwitz. Tutto questo blocco narrativo propone un conflitto decisamente statico. Per statico si intende immobile, che non esercita alcun tipo di forza. Di fatto gli eventi proposti a partire dal trasferimento di Hoss non presentano alcuna attrattiva proprio perché il personaggio non porta avanti nessun conflitto. Feste, colloqui e telefonate potrebbero proseguire in eterno senza che i personaggi cambino in modo significativo o compiano azioni decisive che mandino avanti la storia. Inoltre i due personaggi principali sono male orchestrati; Glazer ha assegnato a Rudolf ed Hedwig più o meno le stesse caratteristiche ma qualunque sceneggiatore valido sa bene che se tutti i personaggi sono dello stesso tipo sarà come avere un’orchestra di soli tamburi. A complicare le cose, nella prima parte del film, Glazer aggiunge una sottotrama che ha come protagonista una domestica polacca degli Hoss, la quale esce di nascosto ogni notte, nascondendo il cibo nei luoghi di lavoro dei detenuti affinché possano nutrirsi. E chi lo sa se verrà scoperta oppure no? Perché, indovinate un po'… non ci è dato saperlo. Non sappiamo, dunque, se Glazer sapesse che la sua premessa originaria era: l’indifferenza rende disumani. Nonostante l’autore proponga un interessante studio di tipo entomologico sui personaggi, la seconda parte del film è del tutto sfasata perché ha iniziato a scrivere la storia con un’idea troppo nebulosa. L’inadeguatezza della seconda premessa soffoca qualsivoglia ripresa; il film non ha infatti né un climax né una conclusione, interrompendosi bruscamente nel bel mezzo del proprio sviluppo. Nell’ultima sequenza Glazer propone un flashforward ambientato ai nostri giorni in cui vediamo un gruppo di custodi che pulisce il museo statale di Auschwitz-Birkenau. Con questo finale l’autore dovrebbe restituirci il peso delle molte vite spezzate durante l’Olocausto. Benissimo, ma a questo punto il film avrebbe dovuto proporci una storia con un’altra premessa. Così il risultato è unicamente quello di confondere lo spettatore.
Tuttavia Jonathan Glazer si conferma essere un buon regista. Lo si vede nell’utilizzo opportuno che fa delle grandezze scalari. Il film in effetti è costruito quasi unicamente da Campi Medi e Figure Intere. La scelta di eliminare del tutto i primi piani è un invito costante a valutare freddamente, dall’esterno, la condotta dei personaggi, a giudicarli e a condannarli senza lasciarsi domare da una passiva emotività. Anche il montaggio funziona, costruito prevalentemente su uno schema che potremmo denominare di “accerchiamento”; attraverso la successione di più inquadrature che da una simile distanza apparente riprendono i soggetti orizzontalmente da più punti di vista (frontale, di profilo, di spalle ecc…) si cerca compiutamente di rendere il senso di autoisolamento dei personaggi, rappresentanti di una società chiusa in se stessa, ostinata a non voler guardare in faccia gli orrori di cui è responsabile. Tutto il film, del resto, è costruito sul motivo del non visto – gli orrori dell’Olocausto non vengono mai mostrati direttamente, solo riferiti – e del non detto – l’inno della cameriera polacca degli Hoff può essere cantato solo per mezzo di una soggettiva mentale -. Da questo punto di vista La zona d’interesse potrebbe essere preso in esame come un accorto esempio delle potenzialità espressive che offre il fuori campo in ambito specificatamente cinematografico; sono molte infatti, le scene del film che propongono inquadrature a struttura centrifuga, ossia che rimandano a qualcosa situato oltre i margini del quadro, a un fuori campo esterno, allo spazio diegetico presente al di là dei bordi dell’immagine filmica. Ma La zona d’interesse non offre soltanto fuori campi esterni; sono molte infatti le scene ambientate all’interno della tenuta degli Hoff che pur comprendendo il complesso concentrazionario di Auschwitz all’interno dell’inquadratura ce ne nascondono gli orrori servendosi dell’elemento profilmico rappresentato dall’enorme muro divisorio. Ciononostante, campo e fuori campo sono costantemente messi in comunicazione tra loro attraverso vari espedienti, non solo narrativi ma anche sonori. Ecco perché il film si serve spesso di suoni off - le grida miste a rumori dei prigionieri nei campi di concentramento – e suoni over – la musica extradiegetica roboante e inquietante – che sostengono il tono e contribuiscono a coinvolgere lo spettatore su ciò che accade oltre la barricata. Questo è quello che funziona ne La zona d’interesse. Ma non basta. Ogni film narrativo non può reggersi unicamente su qualche indovinata intuizione estetica. Deve essere costruito su solide basi drammaturgiche per funzionare davvero. Altrimenti viene altamente compromessa la coerenza drammatica e di conseguenza l’attenzione dello spettatore. Come abbiamo già osservato, Jonathan Glazer è un buon regista, ma un bravo regista non è necessariamente un abile sceneggiatore. Sono mestieri diversi. Quel che non funziona nel film non sono gli espedienti registici, ma le basi narrative, che per quanto autentiche e sentite non sono state gestite in modo adeguato. Il risultato è un film confuso, sbilanciato e dispersivo in cui si salva solo qualche soluzione espressiva.
Bibliografia:
Egri L. – L’arte della scrittura drammaturgica
Rondolino G, Tomasi D. – Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi