STORIA DEL CINEMA CINESE

di Andrea Ferrario


La Repubblica Popolare Cinese, comunemente detta Cina, è il Paese più popoloso al mondo (1,4 miliardi di persone) e il quarto per estensione territoriale. Si trova nell'Asia orientale e confina con una serie di Paesi tra cui la Corea del Nord, l'India e la Russia. La Cina si definisce una repubblica popolare in cui il potere è detenuto dal Partito Comunista Cinese, ma in realtà la sua economia è pienamente capitalista. Oggi è la seconda potenza economica mondiale dopo gli USA. L'etnia più numerosa è costituita dagli han, ma circa il 10% della popolazione appartiene a minoranze, come i tibetani e gli uiguri. Le lingue più diffuse sono il cinese mandarino e il cantonese, che utilizzano lo stesso sistema di scrittura basato su ideogrammi.



Gli anni Trenta, la storia

Il ‘900 cinese è stato un secolo di continui rivolgimenti, a partire innanzitutto dalla rivoluzione che nel 1911 ha posto fine a un sistema imperiale dalla storia millenaria. Un altro anno fondamentale è stato il 1919, durante il quale un vasto movimento popolare incentrato sulle mobilitazioni degli studenti ha dato impulso alla modernizzazione sia politica che culturale del paese. La Cina è stata inoltre in quest’epoca e fino alla Seconda guerra mondiale un paese semicoloniale, perché numerosi suoi territori erano stati dati in concessione, in seguito a pressioni sia economiche che militari, alle maggiori potenze coloniali di allora. Gli anni tra le due guerre sono stati segnati da una frammentazione a ogni livello, a causa sia del fenomeno dei “signori della guerra”, figure a metà tra banditi e soldati che esercitavano un dominio di fatto su porzioni di territorio formalmente controllate dal governo centrale, sia di una strisciante guerra civile tra il Guomindang, il Partito Nazionalista al governo nato di sinistra e trasformatosi in forza di destra e corrotta, e un Partito Comunista in continua ascesa, pur con alcuni periodi temporanei di arretramento. A partire dal 1931 alcune aree del territorio cinese sono state occupate militarmente del Giappone che ha poi avviato un’aperta guerra di occupazione nel 1937, data che segna di fatto l’inizio della Seconda guerra mondiale per l’area dell’Asia Orientale. 


Gli anni Trenta, il cinema

La prima corrente significativa del cinema cinese è stata quella del “cinema di sinistra” degli anni ’30, durante il quale svariati registi hanno cercato di coniugare l’impegno politico con la spettacolarità, di stampo a volte hollywoodiano, generando frizioni e incomprensioni con il Partito Comunista cinese che li sosteneva. Quest’ultimo, che allora operava in clandestinità in un paese controllato dal Partito Nazionalista, premeva per un’impostazione simile a quella del realismo socialista sovietico, mentre i registi cinesi di sinistra, o loro vicini, tenevano conto dei gusti di un pubblico che amava molto la produzione di Hollywood, adottando in parte lo stile tipico del cinema d’oltreoceano per rendere più fruibili i messaggi politici. Purtroppo una parte non indifferente dei loro lavori è andata distrutta nel tempo, e lo stesso vale per la precedente produzione degli anni ’20, prevalentemente pellicole melodrammatiche o di arti marziali. 


Tra le opere prodotte dal “cinema di sinistra” cinese notevole è il film femminista “New Women” (1935) di Cai Chusheng, uno dei capolavori della corrente, particolarmente ricco dal punto di vista sia formale che contenutistico e che segue le vicende di tre donne molto diverse nella Shanghai di allora. Nella prima clip Wei Ming “vede” il film di alcuni episodi della sua vita nel finestrino dell’auto. Nella seconda sul letto di morte, Wei Ming si rende conto troppo tardi che la vita va vissuta fino in fondo.

Lo stesso regista Cai Chusheng ha poi girato nel 1947, durante la guerra civile e prima della conquista del potere da parte dei comunisti, un altro classico del cinema cinese, “The Spring River Flows East”, un melodramma su povertà, ricchezza e guerra (nella scena il dramma della separazione familiare in una Shanghai aggredita dai giapponesi). Cai divenne poi  un burocrate di regime ed è morto nel 1966 durante la Rivoluzione Culturale.



Un po’ meno a sinistra, ma tra i migliori e più raffinati registi dell’epoca, è Sun Yu. Tra le sue prove più significative:  “The Highway” (del 1935, noto in inglese anche come “The Big Road”, nella scena una pausa di lavoro allegra e musicale, ma in cui non manca una riflessione sociale), storia molto briosa di giovani uomini e donne che ruotano intorno alla costruzione di una strada, mentre l’invasore giapponese avanza, “Daybreak” (1933), storia di prostituzione forzata e rivoluzione che avanza ambientata in una Shanghai torbida (nella scena la presa di coscienza rivoluzionaria della protagonista di fronte allo spettacolo dell’oppressione).

Sempre di Sun Yu: “The Queen of Sports” (1934), incentrato sulla figura di una giovane sportiva (nella scena è rappresentata l’entrata in scena di una nuova generazione femminile temeraria e sensuale). 



Del fantasioso Yuan Muzhi, sono ottimi film la commedia sociale “Scenes of City Life” (1935), storia di differenze di classe con triangolo amoroso (nella scena la città cinese moderna, brulicante di attività commerciali e insegne) e  “Street Angel” (1937), un’altra commedia piena di verve e inventiva ambientata a Shanghai, come d’altronde la maggior parte dei film di questa corrente (nella scena un teatrino di corteggiamento dalle finestre dei vicoli di Shanghai).


Di Wu Yonggang, il melodramma “The Goddess” (1934), le vicende di una madre che di notte lavora come prostituta e di giorno si prende cura della figlia, considerato un classico del cinema di sinistra cinese (nella clip in scena la diva Ruan Lingyu, da madre a prostituta e di nuovo a madre), così come “Crossroads” (1937) di Shen Xiling, una commedia incentrata sulle peripezie di un gruppo di studenti e un’operaia, che affronta con humor il tema dell’ingiustizia sociale (nella scena le tentazioni suicide di un giovane disoccupato sul fiume Huangpu a Shanghai). 

Fondamentali in questa epoca due attrici, che hanno impresso la loro figura su gran parte della produzione dell’epoca: Ruan Lingyu, diva melodrammatica morta suicida molto giovane, e Li Lili, piena di dinamica verve modernistica.

Estraneo alla corrente del cinema di sinistra, ma tra i migliori registi degli anni ’30-’40 è Fei Mu – le sue pellicole di prima della guerra sono di difficile reperimento, al contrario di “Spring in a Small Town” (1948), storia ben riuscita di una donna sposata e del suo amore per un amico d’infanzia. Nella scena le ombre e le angosce di una relazione amorosa clandestina.



Gli anni di Mao Zedong (1949-1978). La storia

Con la sconfitta dei giapponesi nel 1945 in Cina è cominciata una guerra civile tra il governo del Guomindang e i comunisti, culminata nel 1949 con la conquista dell’intero paese da parte di questi ultimi, mentre le forze dei nazionalisti si rifugiavano in massa a Taiwan. Il Partito Comunista, sotto la guida indiscussa di Mao, ha avviato riforme che hanno comportato in un primo tempo ampi progressi tra la popolazione, soprattutto tra i contadini e le donne, ma ha instaurato fin da subito un sistema di tipo stalinista, per quanto di tipo peculiare, che ha soffocato ogni autentica mobilitazione dal basso. Questo sistema ha comportato negli anni tragedie di portata enorme per gli abitanti del paese, dalla carestia del 1958 conseguente alla politica economica del cosiddetto Grande balzo in avanti, che ha causato decine di milioni di morti, fino alla Rivoluzione Culturale, promossa da Mao nel 1966 ma poi soffocata da egli stesso in alleanza con l’esercito con un immane spargimento di sangue. 


Gli anni di Mao Zedong (1949-1978). Il cinema

Nel 1949, dopo quattro anni di cruente guerra civile, il Partito Comunista conquista il potere nella Cina continentale sotto la guida di Mao Zedong. Nel giro di un paio d’anni l’industria del cinema viene interamente statalizzata. Fino alla morte di Mao nel 1978 la produzione cinematografica locale è segnata da periodi di brevi, o meglio brevissime, aperture seguite immancabilmente da una stretta ideologica e censoria. I generi predominanti sono quelli del film di guerra (contro i giapponesi, o guerra civile) e delle tematiche legate alle periodiche campagne economiche del governo, ma nei periodi di apertura sono stati prodotti anche film di altro tipo, per esempio commedie. La produzione dell’epoca è oggi di difficile reperimento in versione sottotitolata.

Da segnalare per la freschezza della sua realizzazione,  “Daughters of China” (1949), di Ling Zifeng e Zhai Qiang, sul sacrificio di un gruppo di otto donne volontarie nella guerra contro i giapponesi e uno dei primissimi film della Cina socialista. Nella scena le combattenti comuniste decidono di sacrificarsi per non farsi catturare dai giapponesi.


Nel 1951 il film “The Life of Wu Xun”, diretto da Sun Yu, regista che abbiamo già qui visto attivo nel cinema di sinistra degli anni ’30, è stato oggetto di una delle prime grandi campagne politiche condotte da Mao in persona. Le pellicola, incentrata sulla figura di un mendicante che negli anni accumula soldi per aprire una scuola gratuita per bambini poveri, è stata accusata dal Grande Timoniere di diffondere una cultura di stampo feudale e quindi è stata vietata. 


Del tutto diversa dalle due opere citate è una commedia dall’atmosfera solare e ottimista come “Woman Basketball Player No. 5” (1957), diretta da Xie Jin, uno dei registi cinesi più prolifici attivo poi fino al 2000. Il film descrive le ambizioni di una giovane cestista, intrecciate con flashback sulla vita del suo allenatore e di sua madre negli anni ’30 (nella scena la squadra di basketball dà finalmente il meglio di sé, ma un infortunio pone un’ipoteca sul futuro). Xie Jin ha poi diretto un film molto più ortodosso nei contenuti, e più tipico della produzione maoista, ma dal notevole impatto visivo, come “The Red Detachment of Women” (1961), che narra le imprese di un’unità militare femminile impegnata a combattere un latifondista locale, sullo sfondo esotico del paesaggio dell’isola di Hainan. Da notare che mentre in un film di tema simile come il già citato “Daughters of China” le donne combattenti agivano in autonomia, qui sono invece sotto il comando di un uomo, ufficiale militare e segretario del Partito Comunista locale (nella scena il distaccamento rosso femminile cattura e umilia il latifondista che opprimeva il popolo).

Durante i primi anni della Rivoluzione Culturale iniziata nel 1966 la produzione di film cessa interamente a causa del caos generale. A inizio anni ’70 vengono prodotte in gran pompa, e sotto la supervisione di Jiang Qing, moglie di Mao ed ex attrice, alcune pellicole che ripredono allestimenti di opere e balletti “socialisti”, che oggi conservano un particolare fascino per l’originalità e l’impeccabilità della loro realizzazione. 

Un esempio tipico è proprio un remake del 1970 in forma di balletto del già citato “The Red Detachment of Women”. In questa versione  il latifondista oppressore viene direttamente giustiziato.



Dalla morte di Mao ad oggi. Storia

Dopo la morte di Mao nel 1978 è ascesa ai vertici del paese la cosiddetta ala riformista guidata da Deng Xiaoping, che ha introdotto vasti cambiamenti mirati a orientare il paese verso il capitalismo. Dopo una battuta d’arresto nel 1989, anno in cui è stato represso con violenza il movimento democratico culminato nell’occupazione di piazza Tiananmen a Pechino, la trasformazione capitalista della Cina ha assunto ritmi vertiginosi, facendone presto un asse portante del sistema economico mondiale. Con l’ascesa al potere di Xi Jinping a fine 2012 il paese ha da una parte aumentato le proprie ambizioni in termini geopolitici, puntando a diventare la prima potenza globale, dall’altra ha avviato un’escalation della stretta repressiva interna a ogni livello, sia politico, che sindacale e culturale, oggi ancora in pieno corso.


Cinema: la quinta generazione

A breve distanza dalla morte di Mao nel 1978 iniziano a uscire le prime pellicole che segnalano una inversione di rotta.

Un esempio è quello di “Evening Rain” (1980), diretto da Wu Yigong e Wu Yonggang e che mette in scena, sullo sfondo di una lunga crociera fluviale, i drammi di vari personaggi che viaggiano su una nave durante la Rivoluzione Culturale, tra i quali un poeta arrestato dal regime. Nella scena alcuni istanti drammatici durante il viaggio lungo il fiume Yangtze.


La sterzata più netta la si ha tuttavia qualche anno dopo, con l’ascesa della cosiddetta “quinta generazione” di registi. Le opere di questa corrente rivolgono il loro sguardo soprattutto al passato, sono ambientate in un contesto rurale e sono spesso incentrate sulle sofferenze di donne proposte come metafora della storia cinese.


Tra i film più noti e innovativi della quinta generazione vanno citati “Terra gialla” (1984) di Chen Kaige, ambientato nel 1939 e incentrato sulle figure di un’adolescente costretta a un matrimonio forzato e di un giovane comunista alla ricerca di canzoni popolari. Nella clip il corteo nuziale in un paesaggio arido e sperduto. Nel 1987, il film “Sorgo rosso”, diretto da Zhang Yimou, ha ottenuto a livello internazionale un’eco che nessun altro film cinese aveva mai avuto in passato. In questo film torna il tema del matrimonio forzato di una donna, che diventa però in questo caso centrale e lo spunto per una raffinata e colorata orchestrazione delle immagini. Nella scena la cerimonia per il nuovo vino. Come anche Chen, Zhang rimane oggi a livello mondiale uno di più noti registi cinesi – i lavori dei due registi, dopo avere proseguito con soggetti ambientati nel passato, hanno poi battuto il terreno anche di temi più contemporanei, ma con modalità che spesso strizzano l’occhio al regime autoritario. 

Sebbene meno noto al grande pubblico internazionale, tra i migliori registi che hanno esordito negli anni ‘80 va annoverato anche il regista Tian Zhuangzhuang, il cui capolavoro rimane a tutt’oggi “The Horse Thief” (1986), la storia di un ladro di cavalli negli anni ‘920 che è al contempo uno studio etnografico del modo di vita dei tibetani, nazione inglobata a forza nella Cina fin dagli anni ’50. Nella clip paesaggio e lavoro degli allevatori tibetani si fondono in un’unica visione.



Cinema: la sesta generazione

Verso la metà anni ’90 alla “quinta generazione” segue la “sesta generazione” di registi, che a differenza della precedente privilegia temi contemporanei e approcci realistici il più delle volte molto ruvidi, con ambientazioni urbane e spesso dai toni documentaristici. Il cinema indipendente degli ultimi decenni, la tendenza più ricca e interessante della produzione cinese contemporanea, ha come propria chiave stilistica principale quella del realismo. Non è tanto un’eredità del periodo maoista, più teso all’assurdo di un ideologismo estremizzato, quanto frutto dell’esplicità volontà di documentare, soprattutto nel periodo post-1992, un mondo urbano e rurale in rapida sparizione per la crescita forzata di un capitalismo particolarmente autoritario. In realtà la maggior parte dei cinesi guarda oggi film ben diversi, anche perché le opzioni sono sempre più ristrette: commedie e melodrammi il più delle volte ispirati a un’ideologia patriarcale, o polpettoni storico-politici di regime, con uno stile perlopiù frettolosamente scopiazzato da Hollywood. Non conosco tuttavia sufficientemente questo tipo di produzione. I pochi film facentene parte che ho visto perché raccomandati come più interessanti e meno inquadrati mi hanno molto deluso.


Uno dei nomi più importanti e più noti internazionalmente di questa corrente è quello di Jia Zhangke, di cui sono da vedere, tra i tanti, i due primissimi lungometraggi: “Pickpocket” (1997) la storia di un giovane borseggiatore nella Cina provinciale (nella clip la giornata di un ladruncolo alquanto svogliato) e “Platform” (2000), sui peregrinaggi di una troupe teatrale e la sua progressiva evoluzione nel post-Rivoluzione Culturale (nella clip la troupe teatrale si lascia alle spalle il passato per cercare il successo commerciale).

Tra gli altri registi di questa generazione va ricordato in particolare Wang Xiaoshuai, noto soprattutto per l’interessante “Beijing Bycicle” (2001), una specie di “Ladri di biciclette” cinese incentrato sulla figura di un rider ante litteram, con una bella ambientazione nei vicoli di Pechino (nella scena: caccia al ladro nei vicoli di Pechino), ma molto valido è anche il precedente “So Close to Paradise” (1998), la tragica storia ambientata a Wuhan di una cantante e femme fatale vietnamita bramata da più uomini. 



Uno dei registi in assoluto più interessanti non solo della sesta generazione, ma anche in generale del nuovo millennio, è Lou Ye, che senza impegnarsi esplicitamente in temi sociali ha fatto nell’ultimo ventennio film bellissimi sulle inquietudini cinesi di oggi, ritraendo al contempo più città. Tra gli altri: “Suzhou River” (2000), un noir ambientato nella Shanghai moderna, “Summer Palace” (2006) che parla di Tiananmen e del dopo Tiananmen tra Pechino, Wuhan e Berlino (nella clip i giorni della rivolta di piazza Tiananmen a Pechino), a causa del quale tra l’altro per anni non ha potuto girare film, “Blind Massage” del 2014 (ambientato tra ciechi di Nanchino), “Spring Fever” del 2009 (incentrato sugli ambienti gay di Nanchino, nella clip: alla deriva nei dintorni di Nanchino e nelle sue vie) ed è molto interessante sebbene un po’ criptico anche l’ultimo “The Shadow Play” (2018), ambientato a Canton nel contesto della speculazione edilizia e dell’affarismo.


Cinema: le tendenze odierne

Allla sesta generazione non ha fatto seguito un nuovo gruppo generazionale, bensì una serie di nuovi autori attivi perlopiù a partire dal nuovo millennio e che battono strade assai diversificate. 


Peacock” (2005) di Gu Changwei è il bellissimo ritratto realistico e al contempo poetico di una famiglia di lavoratori tra la morte di Mao nel 1978 e l’inizio dell’era delle riforme di Deng Xiaoping negli anni ‘80 (nella clip il tentativo di combinare un matrimonio per il figlio disabile). Divertente per la sua fantasia graffiante è la commedia “Crazy Stone” (2006) di Ning Hao, diventata ormai un classico (sopra, il trailer). 


In tempi più recenti, interessanti anche i film di Diao Yinan, di cui va segnalato in particolare il noir “The Wild Goose Lake” (2019) ambientato a Wuhan (sopra il trailer), ma anche altri suoi film precedenti come "Night Train" (2007) e "Black Coal, Thin Ice" (2014), quest’ultimo un noir (nella clip uno scambio di colpi d’arma da fuoco tra polizia e banditi). 


Ottimo per le ambientazioni urbane contemporanee (meno per la sceneggiatura) è “Blue Amber” di Zhou Jie, del 2018 (nella clip l’inquietudine di He Jie attraverso la sua esplorazione della megalopoli Chongqing). Un giovane che merita una menzione del tutto particolare è Bi Gan, entrambi i suoi film vanno visti, soprattutto il primo, “Kaili Blues” del 2015, la storia onirica di un uomo alla ricerca del nipote misteriosamente scomparso (nella clip la magia che irrompe nella realtà prelude alla misteriosa scomparsa del bambino), ma anche il secondo e per ora ultimo, “Long Days Journey Into the Night”. Bi è un maestro del piano sequenza (ma non fine a se stesso) e nel primo ce ne è uno bellissimo di 40 minuti. Il suo stile in generale è definibile come “neorealismo magico”, le ambientazioni sono rurali/città di provincia.


Il cinema documentario

Negli ultimi trent’anni circa in Cina si è sviluppato uno dei movimenti di cinema documentario più interessanti a livello mondiale, con una produzione vasta, ma di difficile reperibilità. I cineasti che ne fanno parte producono opere di stampo realista, che documentano dalla prospettiva degli oppressi lo sviluppo capitalista del paese. 

Il movimento ha preso il via nel 1990 con “Bumming in Bejing”, diretto da Wu Wengguang, un film aspro nel quale vengono descritte le giornate di artisti che cercano di vivere la loro creatività in modo indipendente.


 Il movimento ha poi ricevuto nuovo impulso dal diffondersi del digitale a cavallo del millennio, ma oggi è ormai quasi interamente soffocato dalla stretta avviata dal regime di Xi Jinping, con la chiusura del festival di cinema indipendente di Pechino nel 2014 e il sequestro degli archivi della parallela scuola di cinema. 

Il documentarista cinese più noto internazionalmente è Wang Bing con le sue storie di operai, ma anche di vittime del regime di Mao, passate più volte anche in Fuori Orario. Da vedere in particolare il suo “West of the Tracks” (2003), una monumentale opera di quasi 10 ore nella quale viene documentato il declino di una fabbrica dopo le riforme economiche e i conseguenti licenziamenti di massa. Nella clip I paesaggi desolati della rust belt industriale cinese.



Tra le tante altre “storie di proletari” che il cinema documentario cinese degli ultimi decenni ha offerto va segnalato in particolare il crudo ma umano “Petition” di Zhao Liang (2009), regista che per oltre dieci anni ha seguito le persone che da tutta la Cina si recano a Pechino per presentare petizioni contro abusi subiti (nella clip una protesta contro la corruzione e l’ingiustizia), e dello stesso regista “Behemoth” (2015) sul paesaggio e la popolazione delle aree minerarie della provincia della Mongolia Interna (nella clip i volti dei minatori della Mongolia Interna segnati dal lavoro). 

Emblematico degli anni che hanno immediatamente preceduto la virata ultrautoritaria di Xi Jinping è  “We the Workers” di Huang Wenhai (2017), sugli attivisti sindacali che aiutano i lavoratori a organizzarsi per la contrattazione collettiva (nella clip un attivista spiega ai lavoratori che solo lottando possono ottenere più diritti). Questo documentario, già girato tra enormi difficoltà, doveva avere un seguito sulle donne lavoratrici, ma vista la situazione attuale di forte incremento della censura e delle repressioni si dubita che verrà realizzato.