THE REVENANT


Recensione


The Revenant” è ambientato nel Nord Dakota del 1823 e racconta la storia del trapper Hugh Glass che, ferito gravemente da un orso, viene abbandonato dai suoi compagni. Il protagonista, dopo essere sopravvissuto a fatica, si mette all’inseguimento dell’assassino del figlio, per vendicarsi. Il film è diretto, prodotto e scritto (con Mark Smith) da Alejandro González Iñárritu.

Lo story concept, che potremmo denominare “il sopravvivente”, è piuttosto popolare ultimamente. Lo si può definire così: un uomo si ritrova ferito o in condizioni di debolezza in un territorio selvaggio, lontano dalla civiltà cui era abituato; riuscirà a sopravvivere grazie alla sua determinazione e all’intelligente uso delle poche risorse disponibili. Film di successo costruiti sullo stesso nucleo narrativo sono stati, oltre a “Man in the Wilderness” (1971) di cui “The Revenant” costituisce il remake, anche: “Cast Away” (2000), “127 Hours” (2010), “Gravity” (2013) e “The Martian” (2015). Vanno distinti da quelli incentrati su un gruppo di persone che lottano per rimanere in vita a dispetto di condizioni ostili (ad esempio “Apollo 13”, 1995, o “Everest”, 2015), perché in questi ultimi la narrazione si concentra sulle dinamiche psicologiche tra i personaggi. Nello story concept "il sopravvivente", invece, l’accento è sugli sforzi incessanti del protagonista, solo, contro una natura incantevole, ma avara di risorse. E’ il fatto che egli sia isolato che ne smussa l’individualità psicologica (che potrebbe emergere solo nelle interazioni con altri personaggi) per farne una sorta di emblema dell’umano. 


Che il centro narrativo di questi film sia lo scontro uomo/natura è confermato anche dall’apparato visuale che sono soliti esibire: paesaggi dalla bellezza mozzafiato. La natura infatti non è vista come avversaria, dato che si tratta di uno story concept con un punto di vista ecologista romantico: l’uomo è piccolo e fragile di fronte alla grandezza e alla potenza del creato, ma con l’intelligenza e il rispetto verso ciò che lo circonda può aspirare a sopravvivere. 

Il film di Iñárritu, però, innesta nello story concept principale tre altri elementi narrativi. 

Il protagonista, si viene a sapere da alcuni flash back, era vissuto con i nativi, dove aveva preso moglie e gli era nato un figlio. Questa convivenza era stata violentemente interrotta da una sanguinosa incursione dell’esercito, che aveva raso al suolo il villaggio e ucciso la moglie. Si tratta di uno story concept che si potrebbe definire “il convertito”, dove un membro di una comunità in lotta contro un’altra trova che la comunità “nemica” abbia valori superiori a quelli praticati dalla propria, e vi aderisce. Il nucleo narrativo è alla base di film quali “Little Big Man” (1970), “Dances with Wolves” (1990), “Avatar” (2009). L’unione in chiave sentimentale tra un bianco e una indigena si era già vista invece, per rimanere solo ai nativi americani, nei film tratti dalla figura leggendaria di Pocahontas (ad esempio “The New World”, 2005). La sequenza della devastazione del villaggio era poi stata messa in scena efficacemente, tra gli altri, da “Soldier Blue” (USA).

Il secondo elemento è quello della vendetta. Il trapper Hugh Glass nel film originario (“Man in the Wilderness”) si voleva vendicare per essere stato abbandonato, ma non emerge in alcun momento che questa è la ragione che lo spinge a lottare per sopravvivere. E infatti, quando alla fine “grazia” il comandante, il maggior responsabile del suo abbandono, ciò appare del tutto coerente con lo sviluppo narrativo del film: la vendetta non costituiva la sua motivazione all’azione. In “The Revenant”, invece, vengono rilasciati nel corso del film diversi segnali sulla volontà di vendetta del protagonista, non per l'abbandono, ma per l'uccisione del figlio. I film basati su un personaggio che si dedica a vendicare l’uccisione di un qualche suo familiare sono assai numerosi in tutte le cinematografie, da “C’era una volta il West”, 1968, a “Lady Vendetta”, 2003, a “The Gladiator”, 2000 (che ha ispirato anche la scena finale del film).

Il terzo elemento narrativo è quello dei nativi che cercano di liberare una loro ragazza rapita dai bianchi (francesi), uno story concept alla base di diversi film (ad esempio “The Big Sky”, 1952).

L’innesto di questi tre elementi narrativi sullo story concept principale risulta piuttosto forzato. Se il film voleva sottolineare la qualità morale del protagonista nella sua rinuncia alla vendetta, la dimostrazione appare piuttosto discutibile, dato che nel finale il trapper indirizza consapevolmente il suo antagonista verso un gruppo di indiani che fanno il lavoro sporco al posto suo, e non si comprende nemmeno il perché. Inoltre il suo passato di “convertito”, la presenza dello spirito della moglie, il figlio meticcio che si trascina dietro, la ragazza rapita che appare oltre la metà del film, affollano il panorama narrativo in maniera piuttosto artificiosa: se li si sottraesse, la storia starebbe in piedi lo stesso.

Tutti quegli elementi “promettono” uno sviluppo che invece non c’è. Dopo che il protagonista rimane solo, entro la prima mezzora, il film si “siede” fino alla fine. Si ha come l’impressione che Iñárritu non sapesse molto bene come riempire le successive due ore. Si alternano episodi che non sono in alcun modo narrativamente necessari e che appaiono aneddotici. Valga per tutti quello dell’incontro del protagonista con un nativo sciamano che gli offre da mangiare, lo cura e lo salva dalla tempesta. Quest’ultima sequenza è presa tra l’altro pari pari da una identica di “Dersu Uzala” (1975), dove un “buon selvaggio” salva il suo bianco “capitano” da una bufera di neve costruendo in poco tempo una piccola capanna di frasche dove lo infila dentro. 

L’unico personaggio interessante è quello dell’antagonista, un cattivo non scontato, un po’ bizzarro e le cui azioni sono, date le premesse, credibili. Non accade invece la stessa cosa al comandante, che viene visto, a differenza dell’originale, in maniera irragionevolmente positiva: quando il protagonista viene ferito dall’orso ha la tentazione di sparargli, poi però nel finale rischia addirittura la vita (e infatti viene ucciso) per inseguire l’antagonista che aveva mentito sul destino di Glass. 

Proprio la messinscena realistica del film, inoltre, fa risaltare incongruenze ed esagerazioni. Se fosse un film di genere, alle cui convenzioni siamo tenuti a “credere”, non ci faremmo troppo caso: non ci stupiamo ad esempio se un supereroe prende una cannonata in pancia limitandosi a rimbalzare. In un film di Iñárritu, invece, ci si aspetta che la fisica e la biologia abbiano una qualche voce in capitolo, seppur nella finzione. Il protagonista viene massacrato da un orso e sopravvive, bene, poi però: la carne gli va in cancrena, ma allo sciamano basta strappare un po’ d’erbetta e spargergliela sulle ferite (anche questo già visto ne “The Gladiator”) per farlo svegliare la mattina dopo tutto arzillo. A noi umani quando cadiamo in acque gelide sono sufficienti pochi minuti per andare in ipotermia, ma il magico Glass si butta nel fiume ghiacciato, nuota e si rotola nelle cascate, esce fuori dopo un bel po’, non trema, non si asciuga i vestiti e… sta meglio di prima. Poi. Lo inseguono venti indiani dalla pessima mira e lui sfugge loro… buttandosi in un dirupo di venti metri col cavallo e tutto. Dopo un po’ si sveglia, non più acciaccato di prima, pronto a sventrare il cavallo per dormirci dentro. Boh. 

Il gossip che cresce intorno agli Oscar tifa perché il premio per il miglior attore sia assegnato a Di Caprio. Grande attore, ma proprio in questo film, nel ruolo del rude mountain man, appare poco credibile. E la parte lo obbliga a un range di espressioni facciali piuttosto limitate: smorfie di dolore di ogni tipo e occhiatacce da cattivo, che però al povero Leo sono sempre venute fuori un po’ così. 

Iñárritu è un grande regista. Lo si vede nei due piani sequenza, imperdibili, della prima mezzora, quello dell’assalto indiano all’accampamento dei cacciatori di pelle e quello dell’aggressione dell’orso. Inoltre è un ottimo direttore della recitazione, anche se in questo film questa sua abilità non poteva emergere granché. Ma un grande regista non è necessariamente un grande sceneggiatore. Sono mestieri molto diversi. Quel che non funziona nel film non è la qualità della visualizzazione, ma la narrazione. “Amores Perros” (2000) e “21 grams” (2003) si avvalevano della collaborazione di Guillermo Arriaga e “Birdman” di tre valenti sceneggiatori. In “The Revenant” figura un collaboratore, Mark Smith, che evidentemente ha qualche limite oppure che non è stato ascoltato. Il risultato è un film inutilmente lungo, pieno di già visti, del quale si salvano solo alcuni momenti di regia.

 

Michele Corsi