L’isola di Taiwan ha una storia peculiare. Abitata da popolazioni autoctone, nel corso del XVII secolo è stata oggetto di un’intensa immigrazione di cinesi del continente, diventati nello stesso periodo popolazione maggioritaria. Nel 1895 Taiwan è diventata la prima colonia di un Giappone allora in forte ascesa. Lo spietato dominio giapponese ha portato alla nascita di un movimento anticoloniale che ha avuto anche importanti risvolti a livello culturale. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’isola è stata annessa dalla Cina allora guidata dal Partito Nazionalista di Chang Kai-Shek, ma di fatto in stato di guerra civile. Sconfitti dai comunisti nel 1949, i nazionalisti, con una grande quantità di loro soldati, si sono rifugiati a Taiwan, che hanno occupato militarmente insediandovi una dittatura anticomunista. Come in Corea del Sud, paese con il quale da un punto di vista storico e sociale Taiwan ha numerosi punti in comune, la dittatura è stata estremamente violenta e ha goduto del pieno sostegno degli Usa. La sua fase si è chiusa intorno agli anni ’80 del secolo scorso. Oggi la maggioranza degli abitanti di Taiwan rivendica un’identità diversa da quella cinese del continente. La situazione dell’isola è paradossale, visto che di fatto è da decenni uno stato indipendente, ma non può formalizzare questa sua condizione perché la Cina la considera proprio territorio e la invaderebbe subito, come da tempo minaccia di fare. Gli Usa, da parte loro, forniscono armi e un limitato supporto diplomatico a Taipei, ma non riconoscono l’esistenza di una Taiwan indipendente per non irritare troppo Pechino. L’attuale governo taiwanese definito “indipendentista” da parte sua si guarda bene dal proclamare l’indipendenza al fine di evitare un’invasione cinese e cerca di preservare lo status quo.
In termini cinematografici, Taiwan si è guadagnata una notevole eco mondiale nella prima metà degli anni ‘80 con i successi ottenuti da alcuni suoi registi nei festival europei. In particolare, la “firma” di questa ondata taiwanese è stata quella di un cinema pacato e riflessivo, fatto spesso di lunghi piani-sequenza, che ha fatto scuola un po’ in tutto il mondo. Il cinema di Taiwan è interessante anche per l’influsso che vi ha esercitato un approccio realista cinese contemporaneamente a una stilizzazione visiva prossima a quella giapponese. I film e i registi che cito qui sono tutti esclusivamente del periodo dagli anni ’80 a oggi, perché i film dell’era precedente sono di difficile reperimento.
Il primo nome da citare è ovviamente quello di Hou Hsiao-hsien, ampiamente noto anche in Europa. I film della sua fase matura, tra la metà degli anni ’80 e l’inizio del nuovo millennio, sono tutti di altissimo livello e da vedere, senza eccezioni.
Si possono mettere in evidenza, tra i numerosi altri, “A Time to Live, A Time to Die” (1985) la storia, vista principalmente attraverso gli occhi di un bambino, di una famiglia trasferitasi a Taiwan dalla Cina continentale nel 1947. Nella clip gli eventi del mondo esterno fanno capolino nella lenta vita quotidiana della cittadina. “City of Sadness” (1989) che segue di nuovo la storia di una famiglia, ma questa volta si tratta di una famiglia locale che si disgrega negli anni in cui i colonialisti giapponesi abbandonano l’isola, dove arrivano i cinesi dal continente che instaurano un nuovo regime di terrore (nella clip l'inizio della dittatura).
Sempre di Hou Hsiao-hsien, “Millennium Mambo” (2001), incentrata sulla figura della giovane hostess di un night-club divisa tra due uomini, in una scintillante Taipei notturna. Nella clip la vita notturna di Vicky, con i colori freddi della discoteca che tornano in agguato in quelli caldi dell’abitazione. Tra i migliori lavori di Hou vi è un film meno conosciuto, e forse di non facile fruizione in quanto strutturato in modo complesso, ma molto interessante perché tra le altre cose si riallaccia alla storia della resistenza antigiapponese e delle repressioni anticomuniste: “Good Men, Good Women” (1995) di cui viene mostrata la morte di un militante antidittatura.
Tra gli altri nomi noti internazionalmente c’è quello di Tsai Ming-liang, la cui produzione ha seguito una traettoria più ad alti e bassi rispetto a quella Hou, ma sempre interessante.
Vale la pena di vedere soprattutto il real-surreale “Goodbye Dragon Inn” (2003), ambientato in un vecchio cinema alla sua ultima proiezione prima della chiusura (nella clip: promiscuità e tempi lunghi nelle toilette del vecchio cinema), ma anche “Rebels of the Neon God” (1992), l’alienazione di quattro giovani di Taipei (nella clip la vacuità della vita dei protagonisti, tra piccoli furti e noiosi scarafaggi), e sullo stesso tema, sebbene con modalità diverse, “Vive l’Amour” (1994).
E di nuovo sullo stesso tema, ma con un divertente approccio surrealmente comico e paradossale, “The Hole” (1998): nella clip il surreale buco nel pavimento provoca incidenti di vicinato. Molto interessanti anche “The River” (1997) e “The Wayward Cloud” (2005), poi ha girato film più pretenziosi, ma che hanno ancora momenti visivamente molto belli. Ne è un esempio “Stray Dogs” del 2013, sulla vita di una famiglia di senzatetto a Taipei di cui si mostra una clip sull’assurdità di un lavoro precario.
Il terzo nome taiwanese di fama internazionale è quello di Edward Yang.
Nel suo caso, come quello di Hou, si può dire che tutti i film da lui firmati valgono la pena di essere visti, sia quelli più asciutti e geometrici, come “Taipei Story” (1995), di cui si mostra una clip su architettura e alienazione a Taipei, e “The Terrorizers” (1996) sull’alienazione urbana...
... sia quelli dal respiro più epico e immersi in storie familiari, come “A Bright Summer Day” (1991) di cui viene mostrata una serata di adolescenti per le vie della Taiwan del dopoguerra, considerato da quasi tutti i critici il suo capolavoro, e “Yi Yi” (noto anche come “One and Two...”) (2000).
Molto meno noto all’estero è Wang Tung, che ha diretto svariati lunghi film anch’essi di respiro epico, a tema prevalentemente storico (colonialismo giapponese, periodo della dittatura) con personaggi ben studiati, storie intelligenti e ambientazioni spesso superbe.
Da non perdere gli affreschi storici “Hill of No Return” (1992), di cui si mostra la clip con l’angosciante approccio con una prostituta malata, “Red Persimmon” (1997) e “Strawman” (1987).
Sopra, una clip tratta da “Banana Paradise” (1989) in cui il protagonista, appena emigrato nell’isola dal continente, rimane affascinato dalle tradizioni taiwanesi, e, sempre di Wang Tung, uno dei suoi film di ambientazione contemporanea come “Away We Go” (2002): la clip mostra i membri di una banda di musicisti taiwanesi in gita a New York.
Chang Tso-chi, nonostante sia poco noto, è annoverabile tra i migliori registi asiatici in generale. Nel 2015 ha violentato una collaboratrice, ha scontato per questo tre anni di carcere e ovviamente oggi ciò non può non influire sulla lettura delle sue opere precedenti.
In ogni caso film come “The Best of Times” (2000), di cui la clip mostra il pericolo in agguato nei vecchi vicoli della metropoli, “Darkness and Light” (1999) e...
...“Soul of a Demon” (2007), di cui la clip mostra una grotta e la sua magia nel sontuoso paesaggio taiwanese, rimangano tra i migliori di Taiwan per le loro atmosfere peculiari, in cui si mescolano realismo e toni onirici, con un tocco molto personale e un attenzione particolare per i giovani e i bambini.
Un paio di gradini sotto, ma comunque a un buon livello, c’è tutta una serie di registi interessanti, più o meno giovani.
Chen Kuo-fu ha girato il notevole “The Personals” nel 1998, tutto incentrato sugli incontri a quattr’occhi di una donna con una serie di uomini - gli altri suoi film sono più deboli, pur con spunti buoni qua e là.
Molto bello “Blue Gate Crossing” (2002) du Yee Chih-Yen, su un’adolescente che prende coscienza di essere lesbica.
Chen Yu-hsun ha all’attivo svariati film, tra i quali va menzionato “Tropical Fish” (1995), la storia divertente e molto ben fatta di un rapimento, con protagonisti bambini e adolescenti.
Decisamente notevole è anche “The Fourth Portrait” (2010) di Chung Mong-hong, la storia della maturazione di un bambino in un contesto difficile di adulti, con toni ancora una volta onirici e ambientazioni ben studiate.
Yang Ya-Che ha diretto il raffinato thriller/mistery “The Bold, the Corrupt and the Beautiful” (2017) e sono interessanti anche gli altri suoi film.
Lin Cheng-Sheng è un regista apprezzato e che ha girato svariati film di cui i critici parlano bene, tra i quali in particolare “Betelnut Beauty” (2001), molto interessante per le sue figure femminili e le ambientazioni a Taipei.
“Super Citizen Ko” (1995) di Wan Jen è un film ben realizzato, nonostante qualche tono retorico di troppo, sulla memoria della dittatura e delle repressioni attraverso gli occhi di un ex detenuto politico ormai anziano.
Di Zero Chou, considerato tra i migliori registi dell’ultima generazione, va segnalato soprattutto “Drifting Flowers” (2007), la storia incrociata di tre lesbiche, descritta in modo poetico e visivamente interessante.
Atipica per la cinematografia di Taiwan, ma fresca e originale, sebbene alquanto demenziale nei toni, è la commedia zombie “Get the Hell Out” (2020) di Wang I-Fan, una satira del ceto politico taiwanese dai ritmi vertiginosi e acidissima.