IL CINEMA ITALIANO SOTTO IL FASCISMO


Intorno al 1923 il sistema cinematografico italiano entrò in una crisi profonda. Negli anni Venti solo una percentuale costantemente sotto il 10% dei film in circolazione era di produzione italiana. Mussolini, al potere dal 1922, si preoccupò nei primi anni solo dell'informazione e della propaganda, istituendo allo scopo nel 1924 l'Istituto Luce. Questo produsse una grande quantità di cinegiornali, che obbligatoriamente dovevano essere proiettati prima dell'inizio di qualsiasi film.

Il discorso di Mussolini in cui annuncia le leggi razziali antiebraiche.

Il discorso di Mussolini in cui annuncia la dichiarazione di guerra a Francia e Regno Unito.



L'avvento del sonoro, combinata con la depressione economica, approfondì la crisi del cinema italiano: nel 1931 si produssero solo 13 film italiani. Il fascismo reagì alla crisi con una politica protezionistica, e in campo cinematografico cominciò a sussidiare la produzione nazionale e a limitare la circolazione di film stranieri. Nel 1932 venne inaugurata la Mostra del Cinema di Venezia, nel 1935 il Centro Sperimentale di Cinematografia e nel 1937 Cinecittà. Il regime aveva capito che il cinema poteva essere un potente strumento di costruzione di consenso. Così la produzione di film si incrementò, ma la loro qualità rimase drammaticamente bassa, dato controllo totalitario esercitato dal fascismo. Le case produttrici (Cines, Lux, Manenti, Titanus, ERA, ecc.) rimanevano in mani private, e sarebbero certamente fallite senza le sovvenzioni statali.

Un filone era di tipo propagandistico: Vecchia Guardia (r. di A. Blasetti, 1933) che glorificava la marcia su Roma e lo squadrismo, mentre Lo squadrone bianco (r. di A. Genina, 1936) e Scipione l'Africano (r. di C. Gallone, 1937) esaltavano il colonialsmo italiano. 1860 (r. di A. Blasetti, 1934) cercava di stabilire una continuità tra Risorgimento e avvento del fascismo.



Il regime fascista dovette prendere atto che i film più scopertamente propagandistici non avevano molto successo, e non ostacolò la produzione di film leggeri, scanzonati, di pura evasione che esaltavano la piccola borghesia e i suoi sogni di ascesa sociale. Dato che spesso in queste pellicole si mostravano ambienti ricchi e scintillanti, il filone venne definito "cinema dei telefoni bianchi". Il primo successo fu La canzone dell'amore (r. di G. Righelli, 1930).

Il sonoro incoraggiò il passaggio al cinema di comici del varietà e del teatro: Ettore Petrolini, Totò, Vittorio De Sica. Quest'ultimo divenne celebre intepretando Gli uomini, che mascalzoni... (1932), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939), tutti e tre diretti da Mario Camerini.

 



Con l'inizio della guerra, nel 1940, la produzione cinematografica crebbe ulteriormente, spinta dal regime. Ciò permise ad una serie di giovani registi di sperimentarsi con opere che offrivano un più accentuato realismo: La nave bianca (r. di R. Rossellini, 1941) e I bambini ci guardano (r. di V. De Sica, sceneggiatura di Cesare Zavattini, 1943).

La vera rottura con tutta la cinematografia precedente e l'inizio del neorealismo si ebbe però con il film Ossessione di Luchino Visconti (1943).  Il film segue le vicissitudini di un vagabondo e della sua amante, complici nell'omicidio del marito di lei. L'ambientazione, i costumi, la recitazione sono di un realismo sconosciuto all'epoca. Dopo alcune discusse proiezioni, il film fu rapidamente tolto dalla circolazione.