L'ULTIMA PAROLA - TRUMBO


Recensione


L’ultima parola”, titolo italiano del film statunitense “Trumbo”, racconta la storia della persecuzione politica subita da uno dei più grandi sceneggiatori di Hollywood, Dalton Trumbo. Alla fine degli anni ’40 si scatenò negli Stati Uniti una isterica campagna politica anticomunista che va sotto il nome di Maccartismo. Le lotte dei lavoratori degli anni ’30 e l’esperienza dell’unità del fronte antifascista a livello internazionale in occasione della seconda guerra mondiale avevano fatto sì che negli USA crescesse tra intellettuali e sindacalisti una forte simpatia nei confronti del Partito Comunista. Ma dopo la fine del conflitto, nel clima della cosiddetta Guerra Fredda, una apposita commissione del Congresso (HUAC, House Committee on Un-American Activities), combinandosi con la campagna portata avanti dai mass media e l’azione spionistica dell’FBI di Hoover, organizzò una serie di processi sommari ai danni di migliaia di persone accusate di essere comuniste e “quindi” spie dell’URSS. Il Maccartismo svolse la funzione di spazzar via da scuole, università e media una generazione di intellettuali progressisti, imprigionandoli, privandoli del lavoro e in alcuni casi portandoli al suicidio. Hollywood fu investita in pieno da questa offensiva conservatrice. Ne fece le spese persino Chaplin, che non potè far ritorno negli USA dopo il suo viaggio in Europa, e centinaia di sceneggiatori, registi, attori che vennero inseriti in una lista nera (Hollywood blacklist) che comprendeva chiunque avesse manifestato posizioni progressiste. Sottoposti ad enormi pressioni, molti dei perseguitati rinnegarono le proprie idee e altri denunciarono i colleghi, ma un piccolo gruppo decise di resistere rifiutandosi di rispondere alle domande della Commissione: gli Hollywood Ten, quasi tutti sceneggiatori. Furono condannati alla prigione e per anni non poterono lavorare, se non sotto pseudonimo. Tra questi Dalton Trumbo, che arrivò a vincere due Oscar “in incognito”. Il film narra le vicende di questo sceneggiatore dall’inizio della persecuzione sino al film “Spartacus” (1960, per la regia di Stanley Kubrick) in cui potè apparire di nuovo il suo nome.

Il film “Trumbo” è un biopic. Si tratta di un genere USA nato alla fine degli anni ’90 e che conta titoli quali “Shine” (1996) e “A Beautiful Mind” (2001) e il cui successo perdura tuttora. Sono film “biografici” che narrano di persone colte in una fase della propria vita in cui vengono duramente colpite dalla sorte. Si tratta di individui il cui straordinario talento non viene riconosciuto dal potere o dalla società, e che dopo molto lottare e molto penare, alla fine ottengono pieno e pubblico riconoscimento. Di solito ad accompagnare queste figure (maschili, nella grandissima parte dei casi) è una donna che fedelmente li sostiene e dà loro forza e motivazione. Dato che la maggioranza degli spettatori è convinta di possedere potenzialità che non sono socialmente riconosciute come meriterebbero, l’identificazione è facile, così come la soddisfazione che si prova ad accompagnare il protagonista nella sua meritata vittoria finale. E’ un genere che si basa sulla vita di personaggi realmente esistiti: l’apparente aggancio con la realtà contribuisce ad aumentare l’emotività della ricezione da parte del pubblico delle vicissitudini narrate, spesso così tribolate che risulterebbero poco credibili se non disponessero del timbro “è successo davvero”. In realtà i biopic, pur evitando di solito di mentire spudoratamente, eliminano meticolosamente dalle biografie dei propri eroi tutto ciò che è sgradevole, contraddittorio e oscuro, in modo da non ostacolare il processo di identificazione. Si tratta di un genere basato su un solo story concept, quindi in realtà questi film sono praticamente tutti uguali, da questo particolare punto di vista. Nessuno però se ne accorge, poiché l’ambientazione cambia radicalmente ogni volta e dunque mimetizza col suo potere visivo la ripetitività del nucleo narrativo e del suo sviluppo. 

Il film “Trumbo” rispetta i canoni del genere? Assolutamente sì. E’ una scelta che Trumbo avrebbe condiviso pienamente. Non era uno sceneggiatore per film sperimentali: lavorava dentro Hollywood, non contro Hollywood, e il suo impegno (e quello degli altri “comunisti”) era di “usare” i film riservati alle larghe masse per veicolare contenuti e valori progressisti. “Trumbo” compie esattamente la stessa operazione. Si può dire però che la conduce con un tasso di onestà mediamente superiore a quella degli altri biopic. Del personaggio non rinuncia a mostrare i lati sgradevoli (come l’atteggiamento dispotico verso i figli, cui mette una pezza un po’ tardivamente) e contraddittori (come la leggerezza con cui si presta nel periodo di clandestinità a scrivere sceneggiature per film di serie Z, atteggiamento criticato dalla sua coscienza critica Arlen Hird, che appare più “eroico” del protagonista). E vi sono occasioni narrative per snodi edificanti che vengono platealmente snobbate: un qualsiasi biopic non si sarebbe mai lasciato sfuggire l’occasione di mostrare l’eroe che istruisce il detenuto nero analfabeta, mentre invece il film, sino all’ultimo, ce lo mostra irrimediabilmente ostile. Il film, inoltre, resiste alla tentazione di far reagire fisicamente il personaggio in occasione di una delle tante umiliazioni che subisce, un record per un eroe cinematografico statunitense, che un cazzotto di riserva lo tiene sempre in tasca.

Bastano questi meriti per sorbirsi l’ennesimo biopic? No, il film ha molte altre qualità.

Prima di tutto è ben scritto. John McNamara, lo sceneggiatore, si è servito qua e là di battute storicamente pronunciate da Trumbo, ma ha il merito di averle piazzate tutte al posto giusto. Sono battute di dialogo “old style”, di quelle che da sole descrivono una condizione esistenziale (“amici? Quali amici? Chi diavolo ha il lusso di avere amici? Io ho solo nemici e alleati!”), dipingono un personaggio (Trumbo e un suo compagno ad una conferenza commentano il discorso anticomunista di John Wayne: “non pensavo fosse così bravo!” “E’ che non sta recitando…”), cambiano il tono di una scena (descrivendo i fanatici anticomunisti che li vogliono eliminare: “sono dei nazisti, solo troppo tirchi per comprarsi una divisa”). Il ritmo narrativo verrà sicuramente considerato lento da molti spettatori, invece, semplicemente, è quello giusto per dar conto con esattezza di tutto il percorso storicamente compiuto dal protagonista. Il film è pienamente centrato, come dettano i vincoli del genere, sul personaggio principale, ma quelli secondari balzano fuori con vigore e credibilità, anche per merito degli attori: il produttore di film spazzatura Frank Ring (interpretato da John Goodman) e la terribile giornalista Hedda Hopper (Helen Mirren). E il personaggio della figlia maggiore, che diventa militante per i diritti civili, dà profondità storica al racconto. Solo il personaggio della moglie è un po’ sfocato. Un paio di difettini di sceneggiatura, comunque li segnaliamo. Uno di esposizione: si fa fatica all’inizio a capire che razza di riunioni fossero quelle che si tenevano in casa di Edward G. Robinson e chi vi partecipasse. Ma, sul piano della tecnica di sceneggiatura, McNamara risolve il problema dell’affollamento inventandosi il personaggio di Arlen Hird (Louis C. K.) che riassume le caratteristiche di varie persone storicamente esistite, ma che un film di un’ora e mezza non poteva ambire a descrivere compiutamente. E il discorso finale, un po’ confuso e con un pizzico di spirito conciliatorio di troppo, è poco coerente col resto del film. Però lo si dimentica in fretta, perché il vero finale sono le immagini e le riprese di repertorio, molto efficaci, che inframmezzano i titoli di coda.

La regia (Jay Roach) non si fa particolarmente notare, e rispetta i dettami di un genere che vuole sempre la piena focalizzazione visiva del protagonista. Ha però dei guizzi interessanti. Ad esempio la scena che mostra Trumbo quando torna a casa dalla prigione e saluta commosso la famiglia, si chiude con il solito Campo Lungo che nel linguaggio cinematografico segnala al pubblico che la sequenza è finita; il regista però ne approfitta per far udire l'allegra domanda del protagonista su cosa fosse accaduto durante la sua assenza e inquadrando allo stesso tempo il cartello "in vendita" all'entrata della loro casa. Una soluzione intelligente per informare il pubblico e allo stesso tempo colpirlo emotivamente con una dissonanza suono/fotografia. 

Altro elemento interessante è la messinscena. E’ evidente che non si tratta di una produzione dispendiosa: i luoghi riprodotti sono quasi tutti interni (spesso ripetuti) ed esterni senza panoramiche e con angoli visivi ristretti. Eppure il production designer Mark Ricker (“The Help”, 2011) e il costumista Daniel Orlandi (“Saving Mr. Banks”, 2013) sono riusciti a restituire con precisione e buon gusto una ambientazione assolutamente credibile. 

Poi la recitazione. Si è già detto di quegli attori che hanno ricoperto ottimamente i ruoli secondari, ma la performance realmente straordinaria è quella di Bryan Cranston nel ruolo di Trumbo: il film meriterebbe di essere visto anche solo per la sua interpretazione. Cranston è un attore “a levare”, non ha bisogno di gesti o mimiche teatrali: gli basta alterare qualche muscolo facciale, smuovere senza enfasi rughe e linee del volto ed ecco che comunica i più diversi stati d'animo del personaggio con una naturalezza fuori dal comune. Nella serie TV "Breaking Bad" lo avevamo visto trasformarsi passando in una manciata di secondi dal volto del perfetto rimbambito a quello di un mefistofelico criminale, senza che noi mortali potessimo capire come fosse possibile riuscirci muovendo così poco la faccia. In “Trumbo” è all’opera lo stesso approccio minimalista, ma terribilmente efficace, mentre passa dall’espressione arrogante e snob dell’uomo di successo a quella di umiliato e offeso durante la visita corporale in prigione. E tutto senza grida o digrignare di denti: solo un velo impercettibile che passa sul viso. Non è un attore che esalta il gesto, ma che lo trattiene, invece, comunicando la profonda conoscenza del personaggio che incarna. Un film da studiare nelle scuole di recitazione.

Poi i contenuti. Si tratta di un film imprescindibile per chi si occupa di cinema, e forse può essere pienamente apprezzato solo da chi ne conosce un po’ la storia. Questo non sarebbe piaciuto molto a Trumbo, che scriveva film “semplici”, comprensibili a tutti. Del resto una ulteriore semplificazione delle vicende avrebbe nuociuto parecchio alla loro credibilità. Invece così si candida ad essere il miglior film uscito sul mestiere di sceneggiatore. Ed è anche il migliore tra quelli che raccontano la vicenda degli Hollywood Ten, così importante per la storia del cinema: quegli eventi sono narrati dal film con rigore diremmo quasi documentaristico, pur non abbandonando mai le competenze e le risorse della fiction. Il film aggiusta i conti con una serie di personaggi tuttora sopravvalutati dalla storia del cinema, si pensi ad esempio a John Wayne, grande icona, ma attore non eccelso e, politicamente, un cialtrone. C’è una tale densità di storia, verità e verosimiglianza in “Trumbo” che su questo piano alcuni dei film attualmente nelle sale e molto à la mode paiono al confronto giochi infantili per bambini un po’ rincoglioniti. 

Infine due parole sulla vergognosa programmazione di questo film in Italia, proposto in un numero di sale scandalosamente basso. Il “comunista” Trumbo direbbe senz’altro che si tratta di un complotto capitalista. Noi temiamo che si tratti invece di qualcosa di peggio. Che i distributori, cioè, abbiano ragione. Forse in Italia non c’è più un pubblico desideroso di cinema di qualità, un cinema che parla della Storia con la S maiuscola, e degli umani che la costruiscono, a volte come vittime, altre volte come carnefici. Le majors e le catene di sale che muovono da sempre le redini di questa arte non sono gli unici a determinarne i destini: lo è anche il pubblico. Più volte, nella storia del cinema, le masse di spettatori hanno imposto a produttori e distributori svolte profonde nell’offerta cinematografica. Staremo a vedere: se si formeranno file fuori dai pochi cinema che proiettano questo ottimo film, vorrà dire che ci siamo sbagliati. Sarebbe una soddisfazione per il vecchio Trumbo, se fosse ancora in giro. O per quelli come lui, che speriamo siano in giro, da qualche parte.