LA PROFONDITÀ D'IMMAGINE


Ne "Il terzo uomo" ("The Third Man", r. di Carol Reed, 1949, UK) Martin attende Anna sperando inutilmente in una qualche forma di riconciliazione. All’inizio lei è lontana, confusa con lo sfondo, mentre lui è in primo piano. Poi staccandosi dallo sfondo, Anna supera Martin, ridisponendo i piani di profondità: lei si colloca sul (nuovo) primo piano e lui sul piano intermedio (pur non avendo cambiato posizione), davanti allo sfondo. 

 



Deep space/flat space


Nei film di Jean Renoir è comune la presenza del deep space, non tanto grazie a obiettivi a focale corta, quanto per l’utilizzo particolare dello spazio e la disposizione dei personaggi. Nella prima scena tratta da "La grande illusione" ("La Grande Illusion", 1937, FR) i soldati tedeschi si esercitano: si noti che una certa profondità è garantita dall’alternanza di chiaro (i soldati), scuro (l’edificio) e chiaro (il cielo). La seconda scena riprende gli stessi soldati, ma qui fanno da sfondo attraverso una finestra che funge da piano intermedio, mentre l’avampiano è occupato dal gruppo di prigionieri francesi che discutono.



Nella sequenza climax di "Orizzonti di gloria" ("Paths of Glory", 1957, USA) Stanley Kubrick utilizza nella parte iniziale il deep space:  la presenza lungo una linea prospettica di una serie di elementi identici a uguale distanza tra loro permette allo spettatore di immaginarsi meglio l'immagine in profondità. In questo modo viene trasmessa con più forza l'idea dell'inesorabile destino che attende i tre soldati.



All'inizio di questa sequenza di "Deserto rosso" (r. di Michelangelo Antonioni, 1964, IT) la protagonista guarda in soggettiva un operaio mangiare un panino. Sia lei che il soggetto osservato sono tenuti entro una profondità di campo molto ristretta (fuoco selettivo). Quando si avvicina all'uomo per chiedergli il panino, lo spazio si distende: sullo sfondo si staglia la fabbrica, che a causa della prospettiva aerea appare sfumata. Quando la protagonista, psichicamente sofferente, si rifugia assurdamente dietro ad alcuni arbusti per mangiare un panino, l’inquadratura è completamente piatta. La sua figura (e poi quella del figlio quando la raggiunge) balza fuori, grazie al costume dal colore non caldo, ma molto saturo e ben differenziati dal colore di fondo. Tuttavia continua a trattarsi di un flat space dato che manca un qualsiasi indizio di profondità. Dunque solo quando la donna è costretta a relazionarsi con la realtà (nel momento in cui parla con l'operaio) lo spazio acquista profondità, altrimenti è reso piatto dalla sua visione soggettiva in cui il mondo, oltre se stessa e il figlio, appare pericoloso e confuso.


In questa scena tratta da "Grand Budapest Hotel" ("The Grand Budapest Hotel", r. di Wes Anderson, 2014, USA, DE) si crea un flat space grazie alla scarsa visibilità, l'assenza di punti di riferimento, il colore bianco prevalente su tutti i piani di profondità.



La profondità di campo


In "L’uomo di marmo" (Człowiek z marmuru, regia di Andrzej Wajda, 1977, PL) l'ultima scena è una carrellata a precedere lungo il corridoio della struttura che rappresenta la burocrazia al potere. È ripreso infatti con una grande profondità di campo in modo da metterne in rilievo la struttura fredda, anonima e geometrica.



La protagonista di "Family Life" (r. di Ken Loach, 1971, UK) sta spiegando allo psicologo come sia difficile per lei mantenere un lavoro. La ragazza

non esprime un giudizio su quelle attività, sono le immagini a parlare: mentre la sua voce va in over scorrono inquadrature che ci restituiscono la solitudine e l’alienazione dei lavori che ha svolto, annegata tra banchi, mercanzie e cartelli. La sensazione è resa da una profondità di campo molto ristretta che permette un fuoco selettivo sul personaggio.



In questa scena tratta da "I ragazzi del Reich" ("Napola - Elite für den Führer", r. di Dennis Gansel, 2004, Germania) per far sì che il pubblico segua le reazioni dei due protagonisti in mezzo a molti commensali, essi vengono selettivamente messi a fuoco, mentre gli altri sono sfuocati e leggermente sovraesposti.



L’attenzione del pubblico può essere guidata da un passaggio di fuoco interno alla stessa inquadratura, chiamato rack focus: il fuoco dell’immagine passa da un soggetto a un altro che prima era sfocato.



In "Un uomo da marciapiede" ("Midnight Cowboy", r. di John Schlesinger, 1969, USA) si racconta l’amicizia tra due perdenti: il sottoproletario Salvatore e il provinciale Joe, decisi a farsi strada a New York. Per mettere in evidenza che i protagonisti sono in realtà due uomini qualsiasi, persi in un’anonima folla di individui, il film li riprende spesso schiacciati da un teleobiettivo mentre camminano: sembrano stare fermi e altri passanti li superano. Il pubblico comunque non li perde di vista, dato che la sottile profondità di campo li tiene costantemente a fuoco.



La distanza apparente tra i piani


Il protagonista de Il dormiglione ("Sleeper", r. di Woody Allen, 1973, USA) si nasconde in un furgone pieno di robot. Il PP sottolinea la sua sorpresa, il grandangolo produce una distorsione prospettica sul volto, così da aumentare l'effetto comico della situazione.



In questa scena di "Quarto potere" ("Citizen Kane", r. di Orson Welles, 1941, USA) i due protagonisti discutono. La ripresa è da altezza terra e dal basso. L'associazione con il grandangolo permette di riprendere un ampio angolo di campo e dunque di mettere a fuoco tutto l'ambiente, compreso il soffitto, che comunica un'idea di oppressione. Inoltre consente di mantenere contemporaneamente a fuoco i due, anche se sono disposti su diversi piani di profondità. 



Gli obiettivi normali, rispetto alla visione umana, non distorcono le relazioni spaziali tra i personaggi e tra questi e l’ambiente. Per questo un autore antispettacolare come Robert Bresson li prediligeva. "Pickpocket(1959, FR).



Il regista giapponese Yasujiro Ozu preferiva lavorare con obiettivi normali che gli consentivano di focalizzarsi sui personaggi mettendo solo un po' in rilievo l'ambientazione e garantire una patina di semplicità e quotidianità alle sue storie. Qui una scena da "Viaggio a Tokyo" ("Tōkyō monogatari", 1953, JP).



In questa scena de  "Il posto" (1961, r. di Ermanno Olmi, Italia) i due protagonisti si sono appena conosciuti ad una selezione per un posto di lavoro. L'obiettivo a lunga focale integra in maniera confusa e sfocata molti altri elementi che si frappongono tra loro e la camera: le auto, i passanti… L’impressione che se ne ricava è di una ripresa quasi documentaristica, “rubata” alla realtà. 



In "L'agenda nascosta" ("The Hidden Agenda", 1990, UK) si nota l'utilizzo prevalente di focali lunghe (riconoscibili dai piani di profondità appiattiti), dettato però non da mode, ma da esigenze narrative. Serve a suggerire al pubblico che i due personaggi sono attentamente osservati da lontano. Il tele infatti richiama alla mente la visione di qualsiasi strumento di avvicinamento ottico.